Noi abbiamo già parlato di ciò, esprimendo il nostro parere che potrete trovare a questo indirizzo.
Oggi vogliamo però proporvi un'analisi comparsa su "Il Post" a firma di Davide De Luca, il quale riesce molto in sintesi a descrivere la storia dei fatti che Di Battista ha analizzato molto superficialmente nel suo post, dimostrando una preoccupante impreparazione sul tema (si tratta sempre del vicepresidente della Commissione Affari Esteri).
Sabato 16 agosto il deputato del Movimento 5 Stelle Alessandro Di Battista ha scritto un lungo articolo sulla crisi irachena che ha attirato molta attenzione perché contiene una sorta di implicito riconoscimento delle milizie dello Stato Islamico come legittimo «interlocutore» per risolvere l’attuale situazione nel paese. Secondo Di Battista lo Stato Islamico andrebbe consultato per trovare «nuove e coraggiose soluzioni». Secondo Di Battista, l’Italia e l’Unione Europea dovrebbero promuovere una sorta di conferenza di pace per il Medio Oriente coinvolgendo, oltre lo Stato Islamico, la Lega Araba, la Russia, l’Iran e l’ALBE (un’organizzazione di cooperazione economica centro e sudamericana promossa da Venezuela e Cuba).
Si tratta di una soluzione impraticabile e non solo a causa dei crimini e dell’intransigenza religiosa e fanatica dello Stato Islamico. L’Iran, un regime sciita, è uno dei principali nemici dello Stato Islamico in tutta la regione. Anche la maggior parte dei regimi che fanno parte della Lega Araba vedono i miliziani dell’IS come una grave minaccia alla loro sicurezza e non certo come un partner legittimo con cui intavolare trattative. La Russia ha fino ad oggi appoggiato in maniera sostanziosa il regime siriano, un altro nemico dello Stato Islamico. Infine non è davvero chiaro quali interessi potrebbero avere a risolvere la situazione del Medio Oriente stati come Cuba, Venezuela o Bolivia. Per questi motivi non credo che la proposta di Di Battista meriti di essere commentata – anche se, da un punto di vista politico, è interessante notare come un esponente di un partito che ha condannato la cosiddetta “trattativa stato-mafia”, che ha escluso ogni possibilità di intesa con i “corrotti” dell’attuale classe politica e che critica il PD per gli accordi che ha fatto con Forza Italia, non provi nessun imbarazzo davanti all’idea di trattare con un movimento che, in quanto ad efferatezza, è certamente superiore alla classe politica italiana, a Silvio Berlusconi e probabilmente persino a Cosa Nostra.
Personalmente trovo più interessante l’apparato argomentativo che Di Battista ha schierato a supporto della sua tesi. Nel pezzo, piuttosto lungo, Di Battista cavalca di corsa attraverso un secolo di storia del Medio Oriente per dimostrare i presupposti della sua tesi. L’argomento è vasto e tra i più controversi, complicati e pieni di insidie che storici e analisti di professione possono trovarsi davanti. Su alcuni di questi trabocchetti, Di Battista passa con una certa leggerezza: leggendo il suo articolo si ha quasi l’impressione che la storia del Medio Oriente sia una faccenda semplice, dove una linea ben precisa separa i buoni dai cattivi. Ad esempio, Di Battista racconta così l’ascesa al potere di Saddam Hussein, il dittatore dell’Iraq, nel luglio del 1979:
Saddam, con l’enorme denaro ricavato dalla vendita di petrolio, cambiò radicalmente il Paese. Sostituì la legge coranica con dei codici di stampo occidentale, portò la corrente fino ai villaggi più poveri, fece approvare leggi che garantivano maggiori diritti alle donne. L’istruzione e la salute divennero gratuite per tutti. In quegli anni di profonda instabilità regionale il regime di Saddam divenne un esempio di ordine e sicurezza.Si tratta di una ricostruzione piuttosto imprecisa. L’Iraq era già un paese piuttosto “laico” molto prima dell’ascesa di Saddam: almeno dal 1958, quando un colpo di stato di ufficiali dell’esercito depose il re, e ancora di più a partire dal 1963, quando prese il potere il partito Baath, di ispirazione socialista. Saddam governò poco più di un anno prima di far sprofondare il suo paese nella guerra più lunga e sanguinosa della sua storia, il conflitto con l’Iran, scoppiato nel settembre del 1980 e durato fino al 1988. Saddam non ebbe il tempo di portare “la corrente fino ai villaggi più poveri”, perché condusse il paese in una guerra che avrebbe devastato l’economia del paese e portato alla morte di circa un milione di persone: difficilmente si può dire che Saddam portò “ordine e sicurezza”.
Di Battista a questo punto fa un po’ di confusione con le date e con alcuni particolari. Nella sua ricostruzione, dopo lo scoppio della guerra con l’Iran, l’Iraq ricevette dagli Stati Uniti grandi quantità di “gas cianuro” che utilizzò contro i civili curdi nel nord dell’Iraq e contro l’esercito iraniano. Nel contempo, scrive, gli vennero vendute da alcune “multinazionali” moltissime armi convenzionali. Le stesse multinazionali vendettero altre armi all’Iran, con lo scopo di creare una guerra senza fine tra i due paesi e poter lucrare sul conflitto. Quando le armi chimiche vennero utilizzate contro i curdi, gli Stati Uniti non si indignarono, ma anzi, un inviato del presidente Raegan, Donald Rumsfeld (si, quel Donald Rumsfeld) si recò a Baghdad e strinse la mano a Saddam.
Mettiamo un po’ d’ordine. La stretta di mano Saddam-Rumsfeld è del 1983, cioè circa quattro anni prima delle stragi di curdi con armi chimiche. All’epoca Saddam era già considerato un dittatore violento e pericoloso, anche se doveva ancora commettere le sue peggiori efferatezze. La visita di Rumsfeld probabilmente fu molto inopportuna, ma non avvenne dopo le notizie delle stragi con armi chimiche. Anzi: queste stragi portarono a una serie di critiche molto dure nei confronti dell’Iraq da parte dell’amministrazione americana. Sfortunatamente alle critiche seguirono poche azioni concrete.
Per quanto riguarda il commercio di armi, l’Iraq ricevette armi da molti paesi occidentali e del blocco comunista. Si calcola che circa il 90 per cento delle armi ricevute dall’Iraq nel corso della guerra siano state fornite da Francia, Russia e Cina. In quel periodo gli Stati Uniti non fornirono armi all’Iraq, anche se facilitarono le cose agli altri esportatori eliminando alcune sanzioni che avevano colpito il paese. Altrettanto, gli Stati Uniti non vendettero “gas cianuro” all’Iraq, anche perché il “gas cianuro” non esiste (esiste l’acido cianidrico, o prussico, che è stato usato come arma chimica durante la Prima guerra mondiale, ma senza molto successo). L’Iraq produsse “in casa” grandi quantità di gas vescicante e di agenti nervini. Per produrre queste armi spese diverse centinaia di milioni di dollari dell’epoca per importare equipaggiamenti, laboratori e precursori (i componenti chimici più o meno innocui che possono essere utilizzati per creare armi chimiche). Anche in questo caso, i principali fornitori furono europei (Francia e Germania). In ogni caso: nessuno vendette armi chimiche all’Iraq, ma soltanto componenti che potevano essere utilizzati anche per creare armi chimiche.
È vero che mentre alcuni paesi occidentali e molti paesi comunisti vendevano armi all’Iraq, gli Stati Uniti vendettero armi agli iraniani. Si tratta di uno degli episodi più oscuri della storia recente americana, noto come “scandalo Iran-Contras”. In sostanza, gli Stati Uniti vendettero all’Iran – tramite una serie di intermediari – alcune armi in cambio di denaro, ma anche in cambio della liberazione di alcuni ostaggi prigionieri del movimento Hezbollah in Libano (un gruppo fortemente appoggiato dall’Iran). Alcuni dei proventi di questo traffico vennero segretamente utilizzati per finanziare un movimento di guerriglia anticomunista in Nicaragua (lo scambio riguardò sostanzialmente alcune migliaia di missili anticarro TOW). È interessante sottolineare che le cifre dello scandalo Iran-Contras erano nell’ordine di alcune decine di milioni di dollari. Le vendite di armi all’Iraq, d’altro canto, si aggiravano intorno a diversi miliardi di dollari. In ogni caso lo scandalo fu un episodio molto spiacevole della presidenza Reagan e causò una reazione durissima da parte della stampa. Si trattò di una storia molto complicata, che riguardò principalmente la politica internazionale e i servizi segreti e che è molto lontana dalla descrizione un po’ semplicistica che ne da Di Battista:
Le multinazionali della morte appena finito di parlare con Saddam alzavano la cornetta e chiamavano Teheran: «Ho appena venduto all’Iraq 200 carri armati ma a te ti do a un prezzo stracciato questa batteria anticarro».Curiosamente, le uniche “multinazionali” che fecero effettivamente il “doppio gioco” di cui parla di Battista non furono le grandi industrie americane od europee, ma i regimi comunisti, che vendevano armi all’Iraq e, tramite la Corea del Nord, facevano arrivare armi anche all’Iran. Anche la Cina vendette armi ad entrambi i contendenti.
Parlando di un’altra guerra, l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990, Di Battista sembra implicitamente suggerire che Saddam avesse ragione ad invadere il piccolo paese del Golfo e che l’unico problema di tutta la faccenda fosse che l’invasione era: «Una cosa inaccettabile per chi da anni lavora per il controllo mondiale del petrolio». In altre parole, secondo Di Battista, la guerra di liberazione del Kuwait venne compiuta solo per permettere agli Stati Uniti di impossessarsi del petrolio kuwaitiano.
Anche qui bisogna mettere un po’ d’ordine: l’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq fu una vera e propria invasione di un paese indipendente da parte di una potenza ostile. L’attacco iracheno costrinse alla fuga dal paese quasi mezzo milione di kuwaitiani e portò alla morte o alla sparizione di quasi duemila civili. La guerra contro l’Iraq per liberare il Kuwait venne regolarmente autorizzata dall’ONU e alla coalizione che invase il paese parteciparono ben 34 paesi diversi. Secondo Di Battista questa operazione portò alla morte di 30 mila bambini a causa dei bombardamenti americani. Trentamila, in realtà, è la stima più elevata delle perdite subite dall’esercito iracheno (altre stime parlano di circa 20 mila). Si calcola che i civili uccisi nell’operazione siano stati circa 3 mila e seicento. Inoltre, sia prima che dopo la guerra, il petrolio del Kuwait rimase saldamente nelle mani del governo kuwaitiano che lo estrae, distribuisce e vende tramite la Kuwait Petroleum Corporation, di proprietà pubblica (le sue stazioni di servizio hanno il marchio Q8).
hbh@RebelEkonomist
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